di Alfredo Baldi
Il 23 marzo 2022 Ugo Tognazzi avrebbe compiuto 100 anni. Purtroppo ci ha lasciato molto prima, esattamente il 27 ottobre 1990, ad appena 68 anni, per una emorragia cerebrale. Nato a Cremona, aveva debuttato nel cinema nel 1950, non più giovanissimo, in “I cadetti di Guascogna” dove figurava tra gli interpreti principali. Ma aveva già alle spalle una notevole esperienza teatrale, maturata nella rivista e nel varietà e iniziata addirittura nel 1944, durante i mesi dell’occupazione nazifascista dell’Italia del Nord.
Tra il 1950 e il 1990 l’instancabile Ugo interpreta ben 150 film. Non per nulla era considerato – insieme a Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Marcello Mastroianni – uno dei “quattro moschettieri” del cinema italiano postbellico, cioè uno tra i quattro maggiori attori drammatici che più avevano contribuito alla rinascita, prima, e, poi, all’affermazione internazionale del nostro cinema negli anni Sessanta e Settanta. Delle 150 pellicole girate, inoltre, Ugo ne aveva dirette 5 – a partire dal 1961 (Il mantenuto) e fino al 1979 (I viaggiatori della sera) – un paio delle quali decisamente da non dimenticare.
Moltissime le sue interpretazioni rimaste nella memoria degli spettatori, in film spesso campioni di incasso ma anche elogiati dalla critica. A costo di essere prolisso, voglio citare alcuni tra i suoi personaggi indimenticabili del periodo iniziale: l’inflessibile e ottuso federale fascista Primo Arcovazzi di “Il federale” (1961, Luciano Salce); l’industrialotto Antonio Berlinghieri, pazzamente innamorato di Francesca (Catherine Spaak) di “La voglia matta” (1962, Luciano Salce); il finto tonto reduce di guerra Umberto Gavazza, sodale di Domenico Rocchetti (Vittorio Gassman), in “La marcia su Roma” (1962, Dino Risi); l’Alfonso vittima (stricto sensu) dell’implacabile e assatanata moglie Regina (Marina Vlady) in “Una storia moderna – L’ape regina” (1963, Marco Ferreri); all’inverso, il disumano Antonio, insensibile marito che espone al pubblico pagante l’anomalia tricologica della moglie Maria (Annie Girardot) di “La donna scimmia” (1964, Marco Ferreri); il gelosissimo Andrea Artusi di “Il magnifico cornuto” (1964, Antonio Pietrangeli); i quattro mariti “alieni” degli altrettanti episodi di “Marcia nuziale” (1966, Marco Ferreri); il cocciuto contadino sardo Efisio Mulas di “Una questione d’onore” (1966, Luigi Zampa); il tenero Umberto, sarto muto e innamorato di Marisa (Pamela Tiffin), in “Straziami, ma di baci saziami” (1968, Dino Risi); il servile Oscar, autista sottomesso dello spietato Avvocato (Gastone Moschin) in Sissignore (1968, Tognazzi); il funzionario di polizia Antonio Pepeche rinuncia all’azione moralizzatrice in “Il commissario Pepe” (1969, Ettore Scola); infine, per chiudere con i soli primi dieci anni di interpretazioni da protagonista, Emerenziano Paronzini, il mediocre funzionario dell’ufficio delle tasse di “Venga a prendere il caffè… da noi” (1970, Alberto Lattuada).
Dodici interpretazioni magistrali in un solo decennio e tutte in chiave antieroica, sulla linea della straordinaria lezione della nostra “commedia italiana”. Ma non posso non accennare, senza entrare in dettagli, ad altri suoi personaggi dei decenni successivi – altrettanto memorabili – come quelli di “La grande abbuffata” (1973, Marco Ferreri), “Amici miei” (1975, Mario Monicelli), “Il vizietto” (1978, Edouard Molinaro), fino al tormentato Primo Spaggiari del misconosciuto “La tragedia di un uomo ridicolo” (1981, Bernardo Bertolucci).
La città di Cremona e la sua Università hanno voluto ricordare il loro grande artista, nel centenario della nascita, con un convegno di alto profilo, “Ugo Tognazzi, questa specie d’attore” (22-23 marzo 2022), e con la proiezione di un film importante come “Venga a prendere il caffè… da noi”. Ho parlato di film importante sia per motivi contingenti, come il fatto che la copia fosse stata da poco restaurata a cura della Cineteca Nazionale (e chi ha potuto vedere il film prima e dopo il restauro si è reso conto del notevole lavoro compiuto dai restauratori), sia per motivi intrinseci alla pellicola, non ultimo dei quali il suo valore artistico.
Uno dei motivi intrinseci è anzi tutto il godibile romanzo da cui il film è tratto, “La spartizione” (1964), opera di Piero Chiara (Luino 1913 – Varese 1986), importante scrittore di stampo realista, di stile molto spesso satirico o comico-grottesco ma sempre con occhio attento alla realtà, acuto descrittore di personaggi e ambienti vicini al suo luogo natale. Proprio il carattere a volte pruriginoso del contenuto dei suoi lavori ha fatto sì che le opere di Chiara siano state spesso utilizzate dal cinema, ma a partire dagli anni Settanta, quando le sue tematiche scabrose potevano essere accettate con minore rigidità dai censori cinematografici, quindi senza timori di grossi interventi repressivi sui film. Oltre al film di Lattuada, infatti, voglio ricordare, tra le principali traduzioni in pellicola delle opere di Chiara, che dal romanzo “Il piatto piange” (1962) è stato tratto nel 1974 l’omonimo film di Paolo Nuzzi, ambientato a Luino come lo è “Venga a prendere il caffè… da noi”;che “La stanza del vescovo” (1977, Dino Risi), con Ornella Muti al fianco di Tognazzi, deriva dall’omonimo romanzo del 1976; allo stesso modo “Il cappotto di astrakan” (1980, Marco Vicario), è tratto dal racconto del 1978 dal medesimo titolo, mentre “Una spina nel cuore” (1986, Alberto Lattuada), è ricavato dal romanzo omonimo del 1985.
La trama di “Venga a prendere il caffè…da noi” è sostanzialmente fedele al romanzo, ma con alcune varianti, alcune di rilievo, altre meno. Anzi tutto l’epoca: il romanzo è ambientato in epoca fascista, attorno al 1930, mentre il film si svolge nell’attualità, alla fine degli anni Sessanta; gli sceneggiatori evidentemente hanno preferito espungere dal film possibili elementi di polemica legati alla dittatura vigente negli anni Trenta in Italia.
Inoltre, le tre sorelle Tettamanzi del film [foto 2] sono molto meno brutte di come vengano descritte nel libro. La vecchia e laida serva Teresa del romanzo, poi, diviene nel film la giovane e graziosa Caterina, cameriera delle sorelle. Infine, nel romanzo Emetenziano muore di infarto, mentre nel film rimane paralizzato su una sedia a rotelle, con un’orribile smorfia che gli deforma i lineamenti del viso.
Una sola osservazione critica preliminare: l’unico personaggio che, diversamente da tutti gli altri, appare chiaramente estraneo al contesto realistico dell’ambientazione e dei personaggi è la servetta Caterina, interpretata dalla (troppo) giovane, (troppo) provocante e (troppo) bellina attrice francese Valentine: ma “attrice” per modo di dire, perché Valentine ha recitato solamente in tre film, tra il 1970 e il 1973, e tutti diretti da Lattuada. [foto 3 e foto 4]
Ognuna delle tre sorelle protagoniste ha un suo carattere distintivo, una sua “bellezza”: Fortunata, la maggiore, ha bellissimi e lunghi capelli neri. [foto 5] Da notare che si tratta della prima esperienza in cinema diAngela Goodwin (nome d’arte di Angela Bucci), allora quarantacinquenne e appena tornata in Italia, sua terra natale, dagli Stati Uniti dove aveva a lungo vissuto con il marito americano, rimasto però oltre Atlantico. La sua amica Milena Vukotic, che era stata già ingaggiata da Lattuada per il film, l’aveva convinta a inviare al regista una foto, scattata in una delle macchinette automatiche che si trovano per strada! Così anche Goodwin era entrata nel cast, tuttavia imbruttita dal regista con un’imbottitura sotto il labbro superiore che le scopriva i denti.
Tarsilla, la seconda sorella, ha belle e lunghe gambe. [foto 6] È il primo film importante di Francesca Romana Coluzzi, attrice altissima e slanciata, anche spigliata e brava seppur non di particolare bellezza, che Lattuadacomunque imbruttisce, per tener fede alla narrazione delle “tre zitelle brutte”, con un grande neo sul lato sinistro della bocca. In varie occasioni, nel corso del racconto, Lattuada avrà modo di farci osservare e ammirare le gambe, e non solo le gambe, di Tarsilla.
Camilla, la più piccola, ha magnifiche piccole mani affusolate e suona l’arpa; è infantile, ingenua, emotiva, impulsiva. È il primo ruolo da co-protagonista nel cinema di Milena Vukotic, la quale era già stata una delle interpreti principali del televisivo “Il giornalino di Giamburrasca”, miniserie RAI di otto puntate del 1964.
Emerenziano Paronzini / Ugo Tognazzi, infine, è ritratto da Lattuada come un perfetto travet di provincia: celibe, né bello né brutto, un po’ vanitoso, metodico, prevedibile, leggermente segnato dalla guerra (la gamba “sifolina”, cioè poco mobile), frequentatore stabile di una prostituta che però, prudentemente, è stata scelta lontano dal luogo dove Emerenziano vive e lavora: insomma, uno scapolo esemplare.
Più che dedicarmi a un’analisi critica del film, che interessa meno i lettori di questa rivista, commenterò qualche scena particolarmente significativa, ovvero che mi ha colpito in maniera speciale. Anzi tutto va messo in evidenza che il film è uno spaccato fedele – e riconoscibile, per chi viveva nei luoghi – della vita di un grosso borgo lacustre del nord Italia, appunto Luino sul Lago Maggiore, terra natale di Piero Chiara, il quale quindi ha costruito i suoi personaggi e i fatti raccontati nel romanzo sulla base di quanto ben conosceva.
È significante, e non solo divertente, l’inquadratura della lucidissima targa di bronzo con inciso il nome “Tettamanzi” – posta a lato del cancello di entrata della villa – che si riflette sul viso di Emerenziano Paronzini: l’immagine ci racconta che costui, a sua insaputa, nel momento in cui sta per entrare nella casa delle tre zitelle, riceve il loro stampo, viene catturato da loro, diviene uno di loro, un Tettamanzi anche lui.
Un’ironia beffarda (o meglio, autoironia: Chiara e Lattuada erano entrambi lombardi) a proposito dei dialetti locali viene espressa nella conversazione durante il caffè a casa delle sorelle, nel corso del primo incontro formale tra i quattro: i nomi dei paesi delle vicinanze, nonché delle località dove ha lavorato Emerenziano, strettamente lombardi, infarciti di “g” e di “u”, sembrano altrettante parole volgari, scurrili, quasi oscene: Cogliuno, i due Cogliuni (abbastanza scontato), Vuguggiate, Arcumeggio...
Provocatoria e dissacrante è la scena nella Biblioteca Comunale, ospitata in locali di proprietà della parrocchia e gestita sotto l’attenta sorveglianza del prete. Una studentessa entra e chiede a Tarsilla – che svolge le mansioni di bibliotecaria – se ci siano libri di De Sade e di Masoch e, alla risposta negativa, chiede il manuale dell’igiene sessuale: “E’ illustrato?”, Tarsilla: “Sì”, “C’è anche il capitolo sulla pillola?”, Tarsilla: “Sì, c’è anche l’Enciclica del Papa con commento.” (la famosa e molto controversa enciclica Humanae vitae, del 1968, di Paolo VI). Alla provocazione “laica” della ragazza, Tarsilla risponde con altrettanta polemica e ironia “confessionale” (1-1, parità, ci verrebbe da dire).
Una sequenza significante e premonitrice è quella in cui Emerenziano viene accompagnato da Fortunata a visitare la cantina-dispensa della villa, stracolma di ogni bendidio. Nel momento in cui dichiara alla donna, con decisione: “Avrei deciso di sposare una delle tre, e precisamente lei” il suo viso in primo piano è incorniciato da un cordone di salsicce, quasi come un cappio intorno al collo: Emerenziano, senza saperlo, sta iniziando il percorso che lo porterà, in un primo tempo, a diventare padrone (ma allo stesso tempo schiavo) sessuale delle tre sorelle, quindi alla morte simbolica, cioè alla completa paralisi del corpo.
Nel finale, la scena del pranzo, durante il quale le tre sorelle ridono con sguaiata allegria alle battute, alle allusioni e alle provocazioni di Emerenziano, segna il completo ribaltamento della situazione familiare e sociale da cui il racconto era iniziato. Emerenziano infatti lo sottolinea: “E anche voi, che cambiamento, sembrate tre puttane!…. e no, può essere un complimento, in certi casi!”. Le tre Tettamanzi, da “zitelle” tutte casa e chiesa (apparentemente), si sono trasformate in altrettante “mogli”, anzi “concubine”, scatenate, spudorate e gaudenti.
Il film, nonostante le apparenze, non è rivolto contro le donne, anzi è una feroce apoteosi anti-maschilista, più che femminista, che si disvela pienamente, tuttavia, solo nel finale, grazie agli sceneggiatori e a Lattuada che hanno modificato il romanzo di Chiara: Emerenziano è condotto a spasso sulla carrozzella, paralizzato, con una smorfia che gli deforma i lineamenti del viso, e le tre “mogli-concubine” lo accudiscono amorosamente.
Il “gallo” del pollaio non è più tale, ha perso ogni virilità e ogni potere che è passato tutto in mano alle tre femmine.
Alfredo Baldi
Nato a Roma, ha lavorato dal 1968 al 2007 al Centro Sperimentale di Cinematografia dove è stato dirigente di più settori, tra cui la Scuola Nazionale di Cinema e la Cineteca Nazionale. Studioso di storia e di tecnica del cinema, collaboratore di trasmissioni della RAI, organizzatore di produzioni culturali cinematografiche, è stato docente di “Linguaggio cinematografico” all’Università Sapienza di Roma. Ha pubblicato su riviste specializzate più di cento articoli e saggi, soprattutto sul cinema italiano, ed è autore o curatore di una quindicina di volumi. Sulla censura cinematografica in Italia, che studia fin dagli anni Settanta, ha pubblicato due libri, nel 1994 e nel 2002. Nel 2013 è uscito il suo saggio Le nove vite di Valentina Cortese, dedicato alla grande diva. Nel 2018 e nel 2019 ha pubblicato due libri, dedicati alla storia del Centro Sperimentale di Cinematografia e ai 70 anni della Cineteca Nazionale.
Articoli di Alfredo Baldi
– https://www.sololibri.net/Alfredo-Baldi.html
– https://www.store.rubbettinoeditore.it/alfredo-baldi
– https://www.ibs.it/libri/autori/alfredo-baldi
– https://www.youtube.com/watch?v=aVg5sMpf2IQ ….intervista a Lina Wertmuller
Scrivi un commento