by Doctor Floyd
“Wish you were here”, pubblicato il 12 settembre del 1975 negli U.S.A.e tre giorni dopo nel Regno Unito, rappresenta certamente una prova difficile per il gruppo.
Dopo il planetario successo di “Dark Side of the Moon” e la conseguente consacrazione nell’Olimpo del Rock, ma anche la forzata trasformazione, non molto amata dagli stessi Pink Floyd, da gruppo di culto a gruppo popolare, tutti si aspettano un disco dello stesso livello, prima fra tutti la casa discografica.
I musicisti iniziano a lavorare al disco stanchi e annoiati; nessuno è veramente motivato a condividere quel momento con gli altri. Il pubblico che si coagula attorno a loro appare ora vasto e rumoroso, diverso da quello del periodo pre-DS e comunica alla band un senso di inquietudine, alienazione e tristezza come se tutto avesse assunto un carattere vuoto e meccanico.
I Pink Floyd sentono la difficoltà di concentrarsi ed “esserci” tra di loro e di uniformarsi alle enormi pressioni commerciali innescate dal precedente successo.
Il disco è concettualmente diviso in due: da un lato la feroce critica al mondo affaristico che li circonda e dall’altro ancora il filo ideale sulla esperienza umana questa volta con protagonista Syd Barrett, indimenticato e amato amico che quasi per premonizione quel mondo aveva prematuramente rifiutato.
In realtà i due temi sono molto legati e il collante è proprio la celebrazione dell’assenza di Syd Barrett il puro. Nel testo di “Shine”, Waters riversa tutti i suoi sentimenti repressi di colpa e tristezza creando, attraverso la musica di Wright e Gilmour, il tributo epico dei Pink Floyd a colui “senza il quale nulla sarebbe accaduto e con il quale nulla avrebbe potuto continuare”. Nel momento di maggior difficoltà i quattro Pink Floyd si riparano dietro l’evocazione della figura dell’amico di un tempo che, per un’incredibile coincidenza riappare, irriconoscibile, negli studi di registrazione proprio durante il mixaggio di “Shine On”. Nella copertina del disco la stretta di mano tra i due uomini d’affari come elemento centrale rappresenta un gesto che assume la connotazione di estremamente falso e ripetitivo e rimanda, oltre che al concetto di assenza, anche a ciò che accade nel business musicale. Il disco è una malinconica riflessione sulla condizione dell’uomo nella civiltà industriale e ruota intorno a due idee-chiave: l’assenza come mancata partecipazione alla vita per debolezza o forse per troppa lucidità e la “machine” come quel meccanismo malvagio e perverso che attira, annienta e consuma tutto ciò che incontra.
Anche i Pink Floyd si sentono fagocitati da questo sistema: eloquente in questo senso l’immagine del boss col sigaro in bocca di “Have a cigar” ( unico brano dell’intera produzione floydiana cantato da un estraneo nella persona di Roy Harper). Celebrando Barret come il vecchio “pifferaio” che ha scelto la morte artistica per sottrarsi all’alienazione di una vita senza riscatto, la band tradisce l’esigenza e il tentativo di ritornare allo spirito primigenio delle origini.
Franco M. Lamacchia = DoctorFloyd
Il mio nome è Franco M. Lamacchia, sono nato a Milano nel 1964, ma riminese dall’età di tre anni e ho nel mio pseudonimo “Doctor Floyd”, buona parte dell’essenza della mia esistenza: l’essere un medico e un appassionato dei Pink Floyd.
Sono da sempre convinto che ci si identifichi con i doveri e con le passioni e quindi accanto alla mia professione di medico che esercito ormai da 30 anni, coltivo diversi interessi come lo sci, il tennis, il cinema, i viaggi, ma di certo quello che più di tutti ho approfondito e sento mio è quello per la musica della band inglese.
Iniziò tutto in una fredda mattina del dicembre del 1979, allorquando, quindicenne, mi stavo recando a piedi al mio amato Liceo e da un bar sentii provenire una canzone che mi entrò subito in testa: si trattava di “Another Brick In The Wall”.
Quel giorno mi segnò per sempre e nel giro di un paio d’anni riuscii a ripercorrere a ritroso l’intera storia del gruppo arrivando ad ascoltare l’intera discografia fino ai primi dischi con Syd Barrett datati 1967.
La mia vita da “floydiano” è poi andata avanti, e continua tutt’ora, rincorrendo concerti, eventi e pubblicazioni inerenti il mondo dei Pink Floyd, raggiungendo il suo momento più emozionante il giorno in cui, a gennaio 2018, ebbi l’opportunità di rivolgere alcune domande a due membri della band in una conferenza stampa a Roma, un ricordo incancellabile per sempre.
Scrivi un commento