La Dolce Vita di Fellini e Catozzo
di Silvia Nonnato
Dei grandi anniversari del 2020 ed estesi a tutto il 2021 a causa del Covid-19, vi è quello del Centenario della nascita di Federico Fellini, uno dei più grandi geni dell’intera storia del cinema. Numerosissimi sono gli studi e le manifestazioni che lo ricordano ed è certamente molto difficile trovare parole nuove da aggiungere alle innumerevoli che già assai autorevolmente sono state dette e scritte su di lui. Ma dagli archivi a volte escono veri e propri “tesori”, documenti che tengono segreto un passato che è stato e aspettano che qualcuno li trovi, per essere riscoperti, indagati e rivelati.
Da anni la mia ricerca si concentra sul recupero di materiali documentari che il film produce e stratifica. Materiali dai quali si attingono dati unici e sono prove della memoria di molti aspetti sconosciuti del film, perchè spesso succede che se mancano i cosiddetti “archivi viventi”, quelli rappresentati dalla memoria dei protagonisti, per ricostruire la storia del film, sono necessarie quelle fonti cartacee, nate durante il processo produttivo di un film, che lo illustrano, lo accompagnano e che si trovano sepolte nei polverosi archivi.
Quando si parla di archivi di persone che hanno lavorato nel cinema, si pensa per lo più a quelli dei registi ma essendo il film un’opera collettiva, oltre al regista contribuiscono alla sua realizzazione molte altre figure: attori, sceneggiatori, scenografi, produttori, costumisti, direttori alla fotografia e non ultimi i montatori. Numerose abilità che danno il loro apporto a ciò che è, in definitiva, una catena di professionisti e ognuna delle quali genera documenti specifici ma in sinergia con gli altri.
E’ stata dalla scoperta a Santa Severa, di una significativa documentazione nel pressocché sconosciuto Archivio del fidato montatore di Fellini: l’adriese Leo Catozzo, che ha preso avvio l’idea, la stesura e in seguito la pubblicazione, del recente libro dal titolo: “La dolce vita di Fellini e Catozzo” da me curato. Dalle testimonianze scritte rinvenute, si ricavano, dati, dettagli sconosciuti e una grande riserva di informazioni che raccontano la vita, l’amicizia e l’attività lavorativa tra Fellini e Catozzo, il suo collaboratore più prezioso, come lui stesso lo definisce.
La complessità della sua figura, è ben delineata e rappresentata dal suo archivio personale e questo è un bell’esempio di quante varietà di documenti si possano trovare in un archivio cinematografico; raccoglie infatti materiale accumulato in più di vent’anni di lavoro, Catozzo ha ricoperto diversi ruoli tra i mestieri del cinema e perciò rappresenta un caso raro nel suo genere, sia per la ricchezza ed eterogeneità delle tipologie documentarie sia per la rilevanza storica di molti film a cui ha collaborato.
Nell’archivio oltre ad una molteplicità di materiali, come relazioni, contratti, disegni, fotografie di set e lettere scambiate con registi e attori, vi sono conservati sia i fascicoli riguardanti le fasi della ‘preparazione di un film’ che comprende bozze, appunti, testi finalizzati a soggetti e sceneggiature – in quanto Catozzo è stato sceneggiatore e aiuto regista – sia la documentazione relativa alle fasi ‘conclusive del film’ della cosiddetta post-produzione, come i quaderni manoscritti originali di soggetti e sceneggiature con le possibili varianti apportate in corso di lavorazione e copioni per il montaggio, attività alla quale Leo scelse di dedicarsi fino alla fine della sua carriera nel cinema. Tra gli anni ’50-’60 fu il montatore per tantissimi registi e soprattutto con Fellini strinse un intenso legame di amicizia, iniziato al Centro Sperimentale di Cinematografia, un rapporto che divenne poi professionale con “La strada”, il primo film ufficialmente da lui montato per il Maestro Riminese.
Montaggio e regia sono intrinsecamente legati, in quanto entrambi concorrono nella costruzione espressiva del racconto filmico. Nel libro scritto da Fellini “Fare un film”, il regista afferma che in questa fase il rapporto con il film diventa privato: esistono solo il regista e il montatore. infatti Fellini sosteneva che questo fosse il momento più importante per chi fa un film, quando questo vede la luce. Si tratta di una fase delicata e conclusiva, durante la quale il materiale girato è visionato, analizzato, scelto in base ad esigenze ritmiche, narrative, strutturali ed espressive dal regista e soprattutto dal montatore, che opera articolando le immagini in modo da condurre lo spettatore, in un percorso espressivo secondo un proprio stile, attraverso tagli e giunte della pellicola per mezzo allora esclusivamente di attrezzature meccaniche: la moviola. Nella storia del montaggio, fu fondamentale l’introduzione della cosiddetta “pressa Catozzo”, una giuntatrice che utilizzava del nastro adesivo per unire i due lembi di pellicola, messa a punto da Leo nel 1956, proprio mentre lavorava con Federico Fellini al montaggio del film “Le Notti di Cabiria” e che per questo motivo, Fellini voleva battezzare con il nome di ‘Cabiria’.
La sua tavola di montaggio, la sua moviola, ha visto la creazione di alcuni dei più importanti film della storia del cinema e la giuntatrice-pressa che sembrava una semplice soluzione ad un problema personale, – Catozzo infatti era allergico all’acetone, sostanza fino ad all’ora usata per incollare la pellicola – si rivelò essere una grande rivoluzione nel campo del montaggio e cambiò per sempre i connotati di quest’arte, in quanto prima le giunture della pellicola dovevano essere fatte in modo irreversibile e quindi con il grosso rischio di dover sprecare pezzi considerevoli di pellicola. Grazie all’inventiva di questo montatore italiano queste preoccupazioni e difficoltà furono superate, e il lavoro del montaggio poté diventare più libero e intraprendente. La “pressa Catozzo” dette quindi il via ad una nuova generazione di montatori i quali, liberi dal vincolo dell’errore irrimediabile potevano sperimentare diverse soluzioni filmiche, fornendo anche l’occasione di essere molto più creativi e agili nella loro attività.
Questa invenzione, nel 1990, valse a Leo un Oscar per il contributo allo sviluppo dell’industria cinematografica e Fellini in un’intervista la definì come una miracolosa e geniale macchinetta che merita sicuramente un posto d’onore in un museo del cinema e come afferma Alberto Barbera nella presentazione del libro da me curato, comparirà senz’altro nelle pagine di una storia della tecnologia del cinema che deve ancora essere scritta.
L’invenzione di Catozzo ebbe un successo tale che nel giro di poco tempo, dopo il montaggio del film “8 e 1/2”, abbandonò la professione del montatore, per diventare un imprenditore industriale del proprio brevetto.
Di questo momento, quando si interruppe il loro rapporto di lavoro, resta in archivio una lettera che Fellini scrisse a Leo, in ogni sua parola si avverte la profonda sintonia che li legava, il montatore è definito da Fellini come il collaboratore più prezioso, quello che assicura al film il respiro vitale. Per comprendere il loro metodo di lavoro è significativa la corrispondenza tra i due, che testimonia e documenta il legame di grande e reciproca stima che li portava ad un rapporto dialettico, mai conflittuale in cui il montatore suggeriva al maestro spostamenti delle scene, anche radicali e in particolare i finali del film erano una delle sue peculiarità, tant’è vero che spesso li consigliava lui stesso a Fellini. E qui aggiungo, che al regista, devono avergli portato fortuna, infatti ottenne tre dei quattro Oscar ricevuti nella sua carriera, oltre a una palma d’oro al Festival di Cannes per “La dolce vita”, il film che più di ogni altro affermò il mito di Fellini nel mondo, il regista come superstar.
La scena della Fontana di Trevi con la favolosa Anita Ekberg che fa il bagno e chiama “Marcello, come here” è una delle scene più famose del cinema mondiale, ma il finale della Dolce Vita è uno dei più simbolici e poetici: l’occhio del pesce mostro che guarda Marcello Mastroianni e, oltre il canale, la voce dell’innocenza impersonata da Valeria Ciangottini, che lo richiama ma che lui non comprende, facendosi trascinare via da una vita vuota, è memorabile, ed è stata definita dai critici, una delle scene più belle del film.
Tra i documenti dell’archivio Catozzo vi è una foto in cui si vedono Marcello e Fellini sulla spiaggia tra Fregene e Passoscuro, scattata sul set poco prima di girare questa scena che conclude il film, sulla foto vi è scritta un’emozionante dedica autografa del regista che ricorda come il finale fu scelto da Catozzo. Fellini aveva messo questa scena all’inizio, per poi spiegare quello che era successo dopo nel corso del film, Catozzo invece la vedeva bene alla fine. Una volta viste le due versioni, grazie anche alla facilità dell’operazione di montaggio che consentiva la pressa, Fellini scelse quella suggeritagli da Leo.
Gianfranco Angelucci, che ha curato la postfazione del libro, in un suo articolo scrive che “dopo la mareggiata del Centenario Felliniano si continuano a raccogliere preziosi reperti sulla spiaggia e, qualche volta, anche autentiche perle”. Emblematica è questa foto, che ben si addice alle parole di Angelucci e ben esplica il fatto che i documenti d’archivio è come se restituissero voce ai defunti, infatti se non fosse stata trovata questa istantanea probabilmente non si sarebbe mai potuto conoscere questo particolare di questo famoso capolavoro.
C’è da aggiungere che, la spiaggia, è un elemento altamente simbolico per il regista riminese e ricorre in molti finali dei suoi film. “La strada” vinse l’Oscar nel 1957 come miglior film straniero e lanciò Fellini a livello internazionale, dove nel finale, il pianto disperato e quasi redentore di Zampanò (Anthony Quinn) avviene proprio in riva al mare di notte, dopo che ha saputo della morte di Gelsomina (Giulietta Masina).
Anche nell‘ultimo film montato da Catozzo, “8 ½”, il finale è ancora una volta, un finale sulla spiaggia e anche questo fu proposto da Leo.
Quando ormai sta abbandonando definitivamente il progetto del nuovo film, sul set dismesso appaiono di nuovo i personaggi della sua vita che in armonia si danno la mano, formando un allegro girotondo circense sulle note della marcetta dei gladiatori. Uno dei finali più belli, amati e discussi della storia del cinema. Tutti insieme gli attori girano intorno a Mastroianni, nella parte del regista, che li dirige, ma che da loro riceve, un dare-avere indistinguibile, il regista ha ora riconquistato l’innocenza e la gioia di vivere e si rivede bambino. L‘opera figura spesso al primo posto tra le pellicole più care ai fan di Federico Fellini.
È anche il film che segna una sorta di zenit creativo del rapporto tra il regista e il suo affezionato collaboratore Leo Catozzo che aveva selezionato nel corso della sua carriera. Il più dotato tra i montatori del cinema italiano del dopoguerra, inoltre l’autore delle musiche, Nino Rota, compone temi che diverranno una sorta di inno destinato a contrassegnare l’immaginario felliniano.
“8 ½” non è solo un teorema impeccabile sul caos creativo e materiale che contrassegna l’avvio delle riprese di un film, ma anche la documentazione rivelatrice del periodo di incubazione che dà vita alla sua ideazione. L’autore mostra che un regista è prima di tutto un tipo che dalla mattina alla sera viene seccato da un mare di gente che gli pone domande alle quali non sa, non vuole o non può rispondere; ma ci racconta anche come, nell’impossibilità di mettere ordine nel “delirio senza senso e senza scopo” della propria vita, l’unica possibilità sia di partecipare a questo “fantastico balletto cercando soltanto di intuirne il ritmo” (sono parole dello stesso Fellini) e a guidare la scrittura di Catozzo è un ritmo da lui indicato come: “il montaggio ritmico delle immagini” che mette ordine all’accurato caos di Fellini. Capace di sincronizzarsi con i suoi meccanismi interni, con la dinamica del suo procedere, con la circolarità in cui si conclude e ci sospende.
Silvia Nonnato
Silvia è nata ad Adria (Rovigo), una cittadina del Polesine, il 28 novembre 1978.
Laureata in Conservazione dei Beni Culturali, Università Alma Mater Studiorum di Ravenna.
Parte da immagini, fotografie provenienti dal suo Archivio, che poi rielabora e reinterpreta graficamente al computer ed infine ritocca con particolari colori e resine. I mondi della fotografia, della grafica multimediale e della materia manualmente elaborata sono gli elementi fondamentali di questi lavori.
L’opera presentata si intitola “Il Grido” e riprende una scena dell’omonimo film di Michelangelo Antonioni.
l’opera è realizzata su una lastra di alluminio stampato, ritoccato manualmente con colori acrilici e infine ricoperto di una particolare resina. I colori giocano un ruolo di primo piano, vogliono trasmettere il senso di angoscia e solitudine che sprofonda nella incomunicabilità tipica dei film di Antonioni e dei silenzi del Delta del Po.
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