Charlot, l’Uomo e il Mito
di Sara Guzzardi
“Non è patetico, non è terribile che tutta questa gente mi circondi gridando “Dio ti benedica, Charlie!” e che voglia toccarmi il cappotto? Dio, che lurido mondo è questo, che permette alla gente di passare una vita tanto abietta che se qualcuno li fa ridere vogliono inginocchiarsi e toccargli il cappotto come fosse Gesù Cristo che li risuscita».
Così Chaplin pensava.
Rivoluzionario e cinico, o forse semplicemente consapevole, detestava come un perfetto sconosciuto potesse scuotersi in un tale struggimento emotivo, fanatismo figlio della disperazione.
Primo attore a figurare sul “Time” il 6 luglio 1925, molteplici furono i suoi rapporti con le più importanti personalità del tempo.
Indimenticabile la prima di “Luci della città” a Los Angeles, il 2 febbraio del 1931, a cui si presentò insieme ad Albert Einstein.
La platea rimase esterrefatta e smarrita.
Si alzò in un boato di gioia ed applausi emozionati.
Einstein: “Quello che ammiro di più della tua arte, è la tua universalità. Non dici una parola, eppure il mondo ti capisce!”
Chaplin: “Vero. Ma la tua gloria è ancora più grande! Il mondo intero ti ammira, anche se non capisce una parola di quello che dici”.
“Luci della città” fu e rimane una delle opere più sentimentali.
Il sacrificio d’amore, l’accettazione dell’ingratitudine come missiva umana, la speranza mai infranta e la consapevolezza del bene prodigato.
L’amore diviene fine e mezzo, in tutta la sua monumentale magia, in un commovente quanto utopistico motivo finale di felicità.
Lo stesso anno, il 22 settembre, Chaplin incontrerà il Mahatma Gandhi, affascinato dagli intenti di pace e tolleranza largamente predicati dal filosofo indiano
Charlie-Chaplin-Mahatma-Gandhi-1931
Non vi è traccia del contenuto del loro incontro privato, solo alcune foto a testimoniarlo.
Federico Fellini, commosso dalla sua morte, lo definì “l’Adamo da cui tutti discendiamo”. In vita Chaplin non fece mai mistero della sua sincera quanto appassionata ammirazione per Giulietta Masina, che definì in assoluto l’attrice più brava e talentuosa, una sorta di Charlot in gonnella.
Marlon Brando lo epiteto’ come un “sadico manipolatore”, lontano anni luce dalla bontà dei suoi personaggi.
In effetti, questa fu a lungo opinione condivisa.
Chaplin non fece mai mistero degli attacchi d’ira violenta che spesso lo coglievano sul lavoro quanto nella vita privata, né dell’ossessione morbosa per il sesso e le giovani donne.
Edna Purviance, diciannovenne, fu solo la prima di una lunghissima serie di relazioni.
Bellissima e inesperta, fu completamente travolta dalla personalità del suo scopritore, per poi fuggire lasciandolo, stufa dei suoi modi irascibili e dei continui tradimenti.
Mildred Harris aveva 16 anni quando restò incinta.
Lita Grey addirittura, ne attirò l’attenzione a soli 12. Le fece commissionare un autoritratto, e aspettò il compimento dei 16 anni per sposarla.
Di Paulette Godard ricordò a lungo “l’indolenza”, quel carattere forte e combattivo che spesso liberava in lui una strana smania di violenza e supremazione.
Fu il matrimonio con Oona O’Neill nel 1943 a frenare definitivamente i suoi impulsi di conquista.
Lui 54 anni, lei 18.
Dopo essere stata diseredata dalla madre, la scrittrice Agnes Bolton, Oona diede alla luce ben 8 figli, e restò accanto al marito fino alla di lui morte.
Matrimonio riparatore di quella che fu una morale altamente compromessa, alcuni definirono Chaplintotalmente dedito e compiacente, disposto, contro ogni aspettativa, a perseguire con impegno un ideale di uomo completamente nuovo.
Non di rado chiese consiglio alla moglie per la lavorazione di alcune idee.
In realtà, altri apostrofarono il rapporto come “uno squallido tentativo di redenzione”.
Che Chaplin abbia ottenuto o meno questa assoluzione, rimane una delle personalità più determinanti del 900, con le sue luci e le sue ombre, in un’epoca muta con cui lui seppe abilmente parlare,come un Messia.
Con moltissima probabilità, uno stimato psicoanalista avrebbe definito Charles Spencer Chaplin un narcisista con un altalenante complesso di Edipo.
Senza andare troppo lontano, e intuendo, con buona approssimazione, il profilo di uno dei cineasti più importanti della storia del cinema.
La promiscuità della madre, cantante di teatro, donna debole di nervi (e virtù), il divorzio da un padre dedito all’alcol.
La scuola religiosa e l’ardente desiderio di fede, agognato come acqua nel deserto e mai completamente realizzato.
Il suo rapporto caustico con Cristo vedrà soffuse immagini passeggere, chiese e crocifissi in lontananza, quasi ad affermare un bisogno di annunciazione troppo labile per l’uomo.
Il piccolo Charles fu un vero Enfant Prodige, con il talento di una mimica naturale e quella capacità di piegare al pianto.
Charlot prorompera’ negli anni del cinema muto dando vita ad una maschera unica e indimenticata.
Bombetta, bastone e baffetto.
Non di raro gli capitò di non essere riconosciuto senza baffi, tanto quel personaggio gli rimase attaccato addosso, come una seconda pelle.
Plasmato di parole non dette, di suoni non uditi, con la forza dirompente dell’essenza più intima del suo protagonista.
“The Tramp”, l’incarnazione dell’emarginato silenzioso, del recluso nella sua stessa gabbia di umanità, diverrà denuncia e minaccia.
La voce dell’ultimo, egregiamente interpretata dallo sguardo, che da solo conteneva tutta la tristezza del mondo, farà di lui un mercenario di rivoluzione.
Immerso in un buio e doloroso cunicolo di sottintesi dialoghi, silenzio necessario e mezzo, Charles troverà non poche difficoltà con l’avvento del sonoro.
Il dono della voce diverrà per Charlot colpa e condanna.
Le risate fragorose spegneranno il sorriso mite, recludendolo per l’ennesima volta all’angolo degli ultimi, prigione del non detto.
Servirà poco tempo affinché il genio comunicativo possa trovare la sua strada.
Ne Il “Grande Dittatore”, indimenticabile fu la veemenza della parola, l’odio verso la dittatura, in una parodia che segnerà la storia e l’attivismo cinematografico.
Ingombro di umanità, ira e malinconia, continuerà per molti anni a didatticizzare il suo pubblico.
Non come maestro, ma Eletto, capace di veicolare col suo stesso carisma un’arringa di sconcertante quanto necessaria verità.
Ne “La febbre dell’oro”, diverrà portavoce di un’amara messinscena universale: la fame e la miseria, cardini dell’annientamento umano, promotrici di dissoluzione interiore.
In “Tempi Moderni”, condannera’, con un patos fintamente accennato, l’alienazione umana di fronte all’ineluttabile incedere delle macchine.
Ma l’inglese dagli occhi di ghiaccio, dai lineamenti raffinati e dalla bocca sempre schiusa in un indecifrabile sorriso, fu anche un uomo di turbolenta emotività.
Attratto per sua stessa confessione dalla giovinezza, non fece mai mistero delle sue numerose avventure, spesso con donne nemmeno maggiorenni.
La grandezza, in perenne combutta con la pochezza della carne.
Che poca per lui, non fu mai.
Desiderio irrinunciabile, spasmodica ricerca d’amore senza liberazione, tentativo disperato di umana autodeterminazione.
Un riflesso sbiadito, un’anima sola, che si denudava a sera, per sprofondare in passeggeri effluvi carnali.
Sarebbe sbagliato però, immaginare l’indifeso Charlot tra le braccia di saccenti imperatrici.
La sua, non altro che una debolezza confessata, sviscerava tra le lenzuola un predominio feroce, ambiguo, e spesso spaventoso.
L’ urgenza di amore, in un mondo in bianco e nero, che gridava feroce, pur tacendo.
La mia naturale inclinazione alla parola sembra cessare d’improvviso, senza ragione alcuna. Parlare di me mi è quasi ostile. Nata nel cuore pulsante della Sicilia, ho condotto i miei studi classici a Catania, mia amata città del cuore. Il primo amore, Psycho. Inizia a 5 anni il mio totalizzante e appassionato viaggio nel cinema. Il bianco e nero, luci e ombre della stessa sostanza. Una carezza delicata che dà voce alle immagini e nelle immagini diviene forma. Vedere è il dono. Sentire, la poesia. Sempre Oltre.
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